Testo critico a cura di Ilaria Bussoni

Tra le categorie più equivoche della nostra lingua, dunque tra gli strumenti più inaffidabili per darsi un modo per stare al mondo, c’è quella di paesaggio. Imbrigliata dalla storia dell’arte, in quel genere pittorico che nasce e si sviluppa tra Sette e Ottocento e la cui raccolta nelle grandi sale dei musei d’Europa si salta in genere a piè pari, trova alloggio consolatorio nel ritaglio a cartolina, tra colline verdi e rocche tirate a lucido, cipressi inevitabilmente toscani e strade bianche serpeggianti meglio se arruffate da un venticello preserale.

 

Ad alleggerire le cautele nei confronti del paesaggio non aiuta il dibattito che si è svolto dalle parti della filosofia, la quale, se verso il Romanticismo ha dato un contributo notevole alla riproposta del lemma con tanto di sentimento della perdita di sé nell’unità del tutto e ribaltamento delle misure tra piccolo e grande, ha poi abbandonato la questione per riprenderla solo di recente. A scongiurare l’autoevidenza del concetto di paesaggio – ovvero una porzione di territorio offerta alla vista, come vuole la definizione da poco meno di sei secoli – basti l’esteso dibattito che in ambito filosofico e non solo si consuma da alcuni anni, dove si mischiano in formati diversi i seguenti problemi: l’esperienza unitaria di una diversità sensibile; la datità di un mondo sottoposto al primato di una visione soggettiva; la polarizzazione tra soggetto e oggetto, ma anche il suo superamento; l’esteriorizzazione di un’intimità e dunque il venire meno dei confini tra dentro e fuori. E poi ci sarebbe la questione del tempo, dell’infinito presente, delle società senza paesaggio, dell’emancipazione dei sensi diversi dalla vista, della tensione tra le parti che non precedono il tutto, di un concetto statico che non scende a patti col divenire, della sua associazione al bello che non tiene conto dei traumi, della perdita di sé nella contemplazione, del consumo del mondo trasformato in preda dalla visione… e molto molto altro.

 

Nel suo Filosofia del paesaggio, uno dei padri fondatori della sociologia moderna, Georg Simmel, è molto preciso: «Di fronte al paesaggio siamo uomini interi, sia di fronte al paesaggio naturale che a quello che è divenuto artistico, e l’atto che lo crea per noi è, immediatamente, un atto della visione e un atto del sentimento, scisso in queste due parti separate solo dalla riflessione successiva. L’artista è solo colui che compie quest’atto di formazione del vedere e del sentire con tale purezza e forza da assorbire completamente in sé la materia data dalla natura, ricreandola in se stesso. Mentre noi restiamo più legati a questa materia e siamo soliti percepire ancora questo e quell’elemento particolare, l’artista vede e forma solo “paesaggio”». L’assertività della frase potrebbe spingere a chiudere la questione, altrimenti tradotta con: l’artista è l’unico umano ad avere l’enzima per cogliere e restituire paesaggio. A noi altri tocca invece di oscillare tra un pezzo di noi che vede e un altro pezzo che sente, condannati all’ennesimo bipolarismo insanabile, attaccati alla percezione dei frammenti ciascuno dei quali ci ricorda la nostra frammentazione. L’artista, invece, non solo percepisce l’unità, ma ogni sua opera è unità. E da qui l’altra traduzione: ogni opera d’arte sarebbe un paesaggio.

 

Ora, se c’è una ragione per la quale la questione del paesaggio ancora interpella l’arte contemporanea non è perché la svolta ecologica rende anche gli artisti sensibili alla Natura, è perché è per il paesaggio che l’arte è passata per diventare contemporanea. Lì, tra «dispute sulla disposizione dei giardini, descrizione di parchi ornati da templi classici o da umili sentieri boschivi, da racconti di viaggio attraverso laghi e montagne solitarie o da evocazioni di pitture mitologiche o rustiche» si consuma quel momento che consente all’arte di liberarsi della rappresentazione delle gesta umane, per poter avere il valore di Arte, e che riconosce alla Natura le stesse capacità creative dell’arte. In altri termini – come ci ricorda il filosofo Jacques Rancière nel suo libro Le temps du paysage – per il paesaggio passa la rovina dell’edificio rappresentativo che ha sorretto l’affermazione delle Belle Arti e dunque la separazione tra ciò che è arte e ciò che non lo è.

 

Se dunque Nicolò Cecchella può infilare in uno scanner materiali a piacimento e farne un’opera magistralmente prodotta su stampa fotografica, previa intrigante titolazione Indice materiale, non è perché nel suo Dna di artista sta la sequenza genetica della capacità di produrre unità della diversità sensibile, ma perché l’arte contemporanea è l’erede diretta di quel momento in cui l’arte – alla stregua della Natura – può produrre quel che le pare senza subordinazioni mimetiche o rappresentative. Al paesaggio l’arte contemporanea deve la propria libertà.

 

Anche quella, come fa Nicolò con questa serie di lavori, di misurarsi con lo statuto della visione – tema che spesso attraversa la ricerca dell’artista – nei confronti di una materia che in queste opere, nella loro continuità di organico e minerale, diventa la percezione visiva di qualcosa che non potremmo altrimenti definire che come una porzione di materia offerta alla vista. La scansione ravvicinata del materiale terroso mischiato alla proteina animale, lo sprofondare nel microcosmo della tecnica dell’opera, ribalta per paradosso la prospettiva della visione che finisce per somigliare a quel primo sguardo del cosmonauta russo Jurij Gagrin che per primo ha visto che la Terra è blu. A Gagarin, il cui nome è recentemente stato espunto dalla Space Foundation, non dobbiamo semplicemente la scoperta che la Terra è blu. A lui dobbiamo la possibilità di un nuovo sguardo sulla Terra.

 

Così, come già le opere del fotografo Mario Giacomelli, quando nella sua serie intitolata Motivo suggerito dal taglio dell’albero (1966-1968), le sezioni orizzontali di un albero, con le sue linee di vita e di crisi, con le sue annate siccitose o di malattia, con le sue ripartenze e rigenerazioni, con le sue difformità di vita singolare di albero, sono l’analogo di una visione aerea su campi e colline, rilievi e pianure, dossi e distese. Alberi e paesaggi spesso indistinguibili. Anche qui la visione iperravvicinata si rovescia nel suo esatto opposto, proponendo il secondo paradosso che accomuna questa nuova serie di lavori di Nicolò Cecchella e Mario Giacomelli: l’indagine sulla materia, collocare l’opera nella prossimità delle sue microparticelle grazie a una tecnica di produzione della visione, sfocia in una ricerca sull’astrazione delle forme e sui segni.

 

Nell’epoca dell’ipervisibilità dei luoghi, della geografia satellitare, quando più nessuna parte del globo può beneficiare di quell’ombra che è stata uno degli spunti pittorici di Giacomelli, gli Indici materiali tornano a ricordarci che il paesaggio è un’indagine sullo statuto della nostra visione, sulla nostra posizione di soggetti guardanti e sulle potenzialità creative di questo senso che non necessariamente ci consegna un mondo da consumare. La terra, la polvere e il materiale organico si mischiano a formare catene montuose e cumuli di nubi dell’atmosfera. Il minerale e l’animale si aggregano in paesaggi lavici appena consolidati. Paesaggi inesistenti eppure a portata di sguardo, metabolizzati dal Dna dell’artista o dalla voglia di blu del cosmonauta Cecchella.

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