Testo critico a cura di Elisa Medde

L’idea fondamentale alla base della creazione e sviluppo della Gerarchia di Genere nelle arti figurative dal XVI secolo in poi, è stata la distinzione tra la creazione visiva che anela verso l’ideale, verso lo sforzo intellettuale che “rende visibile l’essenza universale delle cose” e quella che si limita al ritratto del reale, alla riproduzione delle sue apparenze. La pittura era chiaramente la forma visiva centrale alla formalizzazione gerarchica, che si proponeva la distinzione dei generi secondo il prestigio ed il valore culturale del momento. Queste gerarchie, dopo aver dominato la produzione pittorica europea per lungo tempo, si sgretolarono finalmente nel XIX secolo – complice anche il potere detonante delle possibilità create dalla nuova immagine fotografica.

 

Guardando questo nuovo lavoro di Alessandro Calabrese, la prima domanda che viene in mente è: cosa succede quando si cerca di rendere visibile l’invisibile, astratta essenza universale delle cose tramite la riproduzione meccanica ed errata delle sue apparenze visibili e reali? Nella creazione del progetto Hierarchies of Genres, Alessandro Calabrese è partito dalle sei categorie che compongono le Categorie di Genere (Pittura Storica, Pittura Ritrattistica, Pittura di Genere o scene della vita quotidiana, Pittura Paesaggistica e di città, Pittura di animali e Natura Morta), dividendole poi in due gruppi. Per tre di loro ha creato un archivio di immagini da lui stesso realizzate, mentre per le altre tre ha creato un archivio di immagini prese dal web, avendo come discrimine la scelta di un solo soggetto per categoria.

 

Una volta composto l’archivio, ogni immagine viene stampata in formato A4, su carta fotografica lucida, dal lato sbagliato: questo fa si che l’inchiostro non penetri nella fibra della carta, costringendo l’immagine in un limbo latente, temporaneo ed instabile. L’unico modo di dare permanenza e stabilità ad una composizione finita è di fotografarla nuovamente, riprodurla meccanicamente.

Questo lavoro, solo in apparenza un esercizio di stile, si inserisce bene nell’onda lunga della ricerca sull’inconscio tecnologico e sul ruolo del caso all’interno del processo di produzione creativa, processo esso stesso sempre più mediato dalla presenza tecnologica nei suoi vari stadi. La tensione visiva tra astratto e figurativo fa qui da cornice ad una riflessione sul metodo, in cui la tecnica diventa in qualche modo meta-protagonista e matrice del risultato visivo.

 

La selezione qui presentata include un gruppo di immagini appartenenti alla stessa categoria, quella della Pittura di Genere, da Alessandro sintetizzata con fotogrammi da film in cui le persone si abbracciano. Sono queste apparenze visibili, molto reali, che vengono riprodotte inesattamente nell’intento di spingere la carica figurativa fino al limite dell’astrazione, senza però mai caderci dentro completamente, riuscendo sempre a percorrerne il confine. La Pittura di Genere occupava un ranking minore nella Gerarchia, in coda alla primeggiante Pittura Storica (che includeva soggetti storici, mitologici ed allegorici) ed alla ritrattistica. Pittura borghese per eccellenza, aveva come oggetto e soggetto le scene di vita quotidiana, dagli interni famigliari ai mercati, feste, relazioni sociali. Aspetto fondamentale della Pittura di Genere era l’assenza totale di identificazione -fosse essa personale o collettiva- in maniera tale da distinguerla da soggetti storici o ritrattistica ufficiale.

Le attività “di genere” in essa raffigurate dovevano essere “generiche”, gli uomini e le donne identificabili solamente come ruolo sociale ma di identità “qualunque”, e dunque “chiunque”: soprattutto l’eventuale committente/acquirente borghese o mercante, finalmente in grado di soddisfare -seppur solo superficialmente- l’ambizione di rappresentazione e riconoscimento sociale.

 

Trovo molto interessante la scelta di Alessandro Calabrese di selezionare per questa categoria immagini di persone che si abbracciano. Allo stesso tempo cliché da romanzo d’appendice e gesto umano forse tra i più rivalutati dopo quasi due anni di pandemia, nella quale il contatto umano -prima così scontato e naturale- è diventato pericoloso, vietato, la sua spontaneità un qualcosa da regolamentare. Eppure, esso stesso un genere per eccellenza, nelle immagini di Alessandro trasformate in un una appartenenza onirica, artificiale e un poco lisergica, meccanica e irreale. Lontana dall’identificazione, eppure così viva, toccante. Quasi umana.

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