Testo critico a cura di Elena Forin

“Matrix” è un progetto che mette a fuoco la natura delle immagini e la loro struttura interna. A prima vista questa dimensione non è percepibile perché le opere si presentano come delle entità astratte e in bianco e nero, senza alcun riferimento al mondo delle cose e apparentemente prive di intenti documentativi. Eppure questi lavori dall’impatto ermetico entrano direttamente al centro del processo fotografico e lo raccontano tutto, senza tralasciare nulla.

 

Questa narrazione focalizzata sui dettagli e le sfumature del linguaggio, scaturisce probabilmente dal fatto che Giorgio Di Noto ha iniziato a produrre Matrix pensandolo più come a un momento di studio che come a un corpus da mostrare ed esporre, e tale approccio,  analitico e riservato, ha avuto un ruolo decisivo per spingere le opere verso una radicalità densa e salda.

 

L’idea alla base del progetto è quella di mettere in discussione un patrimonio visivo consolidato, ovvero quello idealmente composto dalle foto più note della storia, dal bacio di Doisneau alle pozzanghere di Cartier-Bresson fino ai pretini di Giacomelli: ciascuna di queste immagini è stata scansionata e tradotta in digitale. In questo modo, nella trasformazione da analogico ad alfanumerico, l’artista modifica completamente la natura delle icone di partenza portando ciò che nasceva da un processo chimico tra luce oggetto e superficie della carta, a traslarsi nella matematica pura di un codice. Matrix intende esplorare le immagini proprio in questa loro dimensione, analizzandone le tante sfaccettature visive e iconografiche, e mettendo in campo approcci diversi in grado di far emergere aspetti differenti: cambiando infatti il criterio di lettura dell’algoritmo muta la formalizzazione dei numeri in immagine.

 

Con questo approccio Di Noto ha potuto così provare a mettere a fuoco le tonalità dei colori, la trama delle forme, la consistenza delle luci o l’architettura della composizione, e questi esperimenti hanno dato corpo a un ritmo di variazioni in una scala più o meno infinita di bianchi, neri e grigi. Queste cromie, insieme ai segni e alla struttura di ciò che emerge dai vari processi applicati, non hanno alcuna parentela percettiva con le icone che conosciamo, e l’immagine complessiva che restituiscono è sostanzialmente impossibile da collegare con quella scelta dall’artista in ogni singolo caso. All’interno di tale tracciato, possiamo quindi affermare che quello di Matrix è in fondo un lavoro che si basa sul doppio asse che si crea tra la più totale esteticità (quella delle foto di partenza) e quella della sua parallela e contraria negazione, che l’artista porta fino in fondo attraverso l’impiego delle pratiche digitali.

 

Che i titoli delle foto iniziali vengano menzionati o meno nella didascalia dell’opera, o che il pubblico venga messo a conoscenza di quale scatto si tratta, il risultato finale non cambia: Matrix gioca apertamente su uno dei cardini del visivo, la riconoscibilità. Anche conoscendo l’autore e l’opera, anche tornando a guardare e riguardare cercando consapevolmente le tracce di ciò che è nei nostri occhi da tempo e con cui abbiamo creato un’intimità anche se non siamo esperti d’arte, non è possibile trovare quello che si cerca: le opere originarie non sono mai neanche vagamente identificabili, e questa prospettiva è profondamente significativa non solo per se stessa, ma anche perché annientare la riconoscibilità di un’icona è un’ operazione che oggi è davvero radicale sia in termini visivi sia di mercato. La vibrazione che si materializza in questo materiale visivo così paradossalmente nuovo è quindi intensa e sconcertante proprio perché si nutre di questa inaspettata inconsapevolezza e di una disorientante mancanza di appigli con il reale, che si tratti di un paesaggio, di un ritratto o del patrimonio culturale che ha definito il XX secolo. Del resto, la fotografia da sempre mette profondamente in gioco lo sguardo e la mente di chi guarda: “Partendo dall’immagine fotografica si è dato un nuovo significato al concetto di informazione –dice una grande teorica, Susan Sontag[1] – La fotografia è una sottile fetta di spazio oltre che di tempo. In un mondo dominato dalle immagini fotografiche, tutti i confini (le cornici) sembrano arbitrari. Ogni cosa può essere separata da ogni altra: basta inquadrare il soggetto in maniera diversa. (E viceversa ogni cosa può diventare adiacente a qualsiasi altra)”.

 

[1] SONTAG S., Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi ed. 2004, p.21.

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