Testo critico a cura di Carlo Sala

«Per ricordare occorre immaginare»

Georges Didi-Huberman

 

Il concetto di memoria è intrinsecamente legato al mezzo fotografico e più in generale alle varie forme di riproduzione del reale seguendo una serie di evoluzioni tecnologiche che dal diciannovesimo secolo hanno condotto all’iconosfera odierna. La fotografia nei suoi albori ha cercato alacremente di essere uno specchio dotato di memoria, come recitava una delle sue prime definizioni ottocentesche che denotava una fede incrollabile sulla sua capacità di oggettivare la rappresentazione del mondo. Le riflessioni sulla memoria e la messa in crisi dell’oggettività sono due dei temi cardine della ricerca di Emilio Vavarella (Monfalcone, 1989) indagati a partire da lavori come Mnemografo (2016) e Memoryscapes (2013-2016). In quest’ultimo, si condensa il tentativo di alcune persone residenti a New York di ricostruire, attraverso i loro ricordi, la morfologia urbana della città di Venezia dove avevano precedentemente vissuto. La formalizzazione visiva dell’opera è profondamente condizionata dal fatto che tali testimonianze presentano numerosi elementi discordanti tra loro che vanno dall’altezza del campanile della Basilica di San Marco alle dimensioni dei vari palazzi, fino alla collocazione delle finestre negli edifici. Questo lavoro è, sotto vari aspetti, il prodromo della serie Double Blind (2020) realizzata da Vavarella a Gagliano del Capo in Puglia raccogliendo le storie di persone che sono immigrate all’estero per motivi lavorativi e poi ritornate nelle terre d’origine. L’artista ha utilizzato i ricordi legati ad alcune città – da Ginevra a Costanza, da Parigi a Monaco – che in molti casi hanno rivelato dei contenuti fallaci. Le immagini del progetto sono delle mappe visive fondate ab origine su una serie di contraddizioni che, nel processare il magma di dati raccolti, hanno generato delle texture dove appaiono una serie di punti ciechi e indefiniti, dei veri e propri cortocircuiti dello sguardo. Ma proprio nel vedere queste incongruenze torna alla memoria la basilare lezione di Clément Chéroux quando affermava che «è nelle sue ombre (…) nei suoi accidenti e nei suoi lapsus che la fotografia si svela e meglio si lascia analizzare; scommettere insomma sull’errore fotografico come strumento cognitivo».[1] Sebbene lo studioso francese affrontasse nella sua trattazione un contesto essenzialmente analogico, nel passaggio al digitale il valore del suo assunto rimane immutato nel valutare l’errore come un’opportunità di comprensione. I lavori della serie Double Blind di Vavarella sono realizzati mediante dei processi algoritmici di rendering neuronale che incrociano aerofotogrammetrie e rilevazioni satellitari disponibili liberamente in rete.  Le opere presentano un carattere spiccatamente dicotomico perché, se nella loro globalità sono dominate da un iperrealismo dovuto all’alta risoluzione adottata, sono altresì costellate da una serie di punti sfuocati dove l’immagine diviene indefinita generando così un senso di sospensione. Tale aspetto appare come una lucida allegoria del modo di funzionare della memoria umana che porta a ricordare dei dettagli molto precisi accanto a dei vuoti improvvisi che rischiano di inficiare la ricostruzione d’insieme. Queste zone grigie dell’opera innescano una pluralità di riflessioni perché, se da un lato sono una sorta di fallimento tecnologico, dall’altro hanno uno spiccato potenziale generativo ed estetico spostando la questione sul piano dell’inconoscibilità e dell’inaspettato. Scrutando le porzioni dei lavori che risultano sfuocate e illeggibili siamo dinanzi a un senso di perturbante tecnologico che fa percepire l’immagine come familiare, e al tempo stesso alieno, dove si fondono le sensazioni di conoscenza ed estraneità.

 

Inoltre, l’artista nel corso del suo percorso di sovente si è relazionato all’errore vedendolo come un elemento rivelatore del processo, capace di estrinsecare le dinamiche complesse di funzionamento delle tecnologie. Il modus di creazione delle immagini di questa serie è strettamente connesso alle riflessioni teoriche che l’autore sta portando avanti sui media philosophy, ovvero su come tendiamo a creare dei modelli astratti da tecnologie già conosciute e assodate. In questo caso, Vavarella ci invita a meditare su come la nostra concezione dei processi algoritmici è condizionata e viziata dal modo in cui interpretiamo il funzionamento della mente, creando talvolta delle analogie troppo lineari che tendono a smussare la complessità dei fenomeni.

In questo, come in altri progetti di Emilio Vavarella, sono centrali le riflessioni sulla memoria, perché questa si pone per l’artista come il veicolo per trattare tutta una serie di questioni urgenti come l’identità, l’autorappresentazione e il complesso rapporto – dialogico e conflittuale – con le tecnologie.

 

[1] Clément Chéroux, L’errore fotografico. Una breve storia, 2009, Einaudi, Torino, pag. 6.

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