Se agli albori della fotografia vi era una sorta di ideologia neopositivista che attribuiva al nuovo medium la capacità di esprimere in modo oggettivo e parziale il reale, oggi un sentimento similare è quello che pervade la relazione tra il visivo e gli algoritmi (e più in generale l’intelligenza artificiale). Per questo negli ultimi anni vari autori e teorici si sono interrogati sui limiti di tali processi, come Trevor Paglen con la sua riflessione critica verso il machine learning volta a dimostrare come le classificazioni operate grazie ai set di training composti da fotografie amatoriali siano basate su categorie obsolete (ad esempio, razza o genere contemplando solo il carattere binario) che ne minano la neutralità e operatività. Il nuovo progetto di Alessandro Sambini, Human Image Recognition, guarda invece alle varie implicazioni che derivano dall’impossibilità da parte degli algoritmi di arrivare a un pieno livello di efficacia e precisione nelle definizioni dei contenuti ad essi sottoposti, soffermandosi in particolare sul rapporto con quelli di natura visiva. L’artista si interessa a questa sorta di ‘fallimento’ che, invece di essere visto in chiave negativa, appare come endogeno alla natura stessa della macchina rivelando in queste sue defezioni un potenziale generativo capace di innescare dei cortocircuiti nelle usuali linearità di senso; Sambini concentra la sua attenzione sulla performatività incompiuta che sembra umanizzare lo strumento tecnologico, e per questo ne imita il metodo per realizzare le opere della sua nuova serie. L’autore, sostituendo all’azione fredda della macchina la sua visione retinica, ha interpretato le varie porzioni costitutive di una serie di immagini tentando di dare a ognuna di esse un significato autonomo rispetto alla volontà autentica dei loro creatori. L’analisi di ogni frammento è accompagnata da una percentuale di affidabilità delle scelte compiute che non segue criteri statistici, ma vuole evocare delle specifiche cifre mutuate da vari dispositivi tecnologici – parte di una grammatica visiva digitale che oggi è una sorta di nuovo paesaggio quotidiano dello sguardo – a cui l’artista inconsciamente associa stati emotivi, sensazioni e ricordi. Alla base del lavoro vi sono una serie di fotografie vendute dall’azienda multinazionale IKEA che l’autore inquadra sul piano teorico come un esempio di vanilla-images, una categoria di contenuti visivi che a seguito di una serie di processi di veicolazione hanno assunto una sorta di statuto indebolito che li rende il perfetto terreno su cui operare artisticamente. Alessandro Sambini compie delle esegesi sulle porzioni iconiche secondo una dinamica personale e arbitraria segnata dal suo bagaglio di esperienze e conoscenze che non possono necessariamente avere alcun riflesso oggettivo: pur seguendo il modus operativo della macchina, arriva a sondare la sua memoria visiva convocando una pluralità di fonti, ricordi e reminiscenze come fosse il dispiegarsi delle pagine di un testo proustiano. In questa analisi compaiono riferimenti a sogni, frammenti rapsodici dalla cultura popolare e opere d’arte spaziando tra razionalità e memoria inconscia.
Le immagini tipiche dell’iconosfera contemporanea usualmente sono oggetto di una fruizione ‘epidermica’, discontinua e frenetica dove la ricezione è spesso portatrice di significati unidirezionali e ‘monolitici’ che sono accentuati da vari fattori come il peculiare canale di veicolazione o il tagging. L’incapacità della macchina di leggere e comprendere fino in fondo i contenuti, che l’artista vuole simulare in queste opere, può essere anche intesa come un cortocircuito nella usuale ricezione ‘fideistica’ del visivo, decostruendone il significato apparente per andare a stratificare degli ulteriori livelli di comprensione. Il filoso Byung-Chul Han negli anni si è concentrato sul concetto di levigatezza che connatura vari aspetti del nostro tempo – dagli oggetti domestici alle opere d’arte – tra cui le immagini fruite mediante gli smartphone. Il pensatore di origine sudcoreana descrive la comunicazione odierna come priva di ogni negatività, sottomessa alla logica del like e dello sharing, incentrata su un «bello (…) privato di ogni forma di scuotimento e ferimento» dove «l’estetizzazione si mostra nel mondo dell’anestetizzazione, la quale seda la percezione» e impedisce ogni elaborazione critica e approfondita dei fenomeni capace di travalicare la via maestra dei significati predeteriminati. Il processo creativo compiuto da Sambini che, come un chirurgo con il bisturi, disseziona le varie porzioni dell’immagine, permette di vedere quest’ultima come un fenomeno sfaccettato che ospita al suo interno una potenziale costellazione di connessioni a momenti, luoghi, pensieri e culture differenti che emergono per mezzo di una pratica che mette in parallelo l’azione umana a quella degli algoritmi attraverso analogie di metodo, ma anche segnandone le peculiarità.