Testo critico a cura di Andrea Tinterri

Scrivere un diario / ricostruire un ricordo. Due operazioni apparentemente simili, ma distanti nel tempo. Il diario è azione in presa diretta, una registrazione costante e temporalmente vicina agli eventi riportati. Spesso non c’è separazione emotiva tra la situazione vissuta e la sua trascrizione. Accade tutto nel presente, non c’è differita. Ricostruire un ricordo, invece, significa tradurre: subentra un fattore temporale che sintetizza e modifica la percezione originaria. Interviene il filtro della Storia (collettiva o personale) che scandisce una nuova apparizione, probabilmente (ma non è necessario) simile all’atto primogenito. Mattia Balsamini nel progetto … simula la sintassi del diario, ma rispettando la distanza storica del ricordo. Paesaggi, forme geometriche, oggetti, segni, disegni. Il paesaggio che ha caratterizzato la sua infanzia e che caratterizza, malgrado i numerosi spostamenti, il suo presente: il Friuli, la natura sobria, lontana dagli itinerari turistici. E la ricostruzione è atto culturale, inteso come sovrapposizione iconografica che modifica il ricordo. Perché nella successione di immagini (parole) intervengono forme provenienti da altri contesti, appartenenti ad altri luoghi, altre storie. Balsamini intervalla cortecce d’alberi, paesaggi, cieli a prismi, parallelepipedi, cerchi tracciati a matita. Forme elaborate altrove: ricerca, lavori su commissione, viaggi, esplorazioni fotografiche. Il paesaggio del’infanzia (il ricordo) diventa contenitore di forme ricorrenti, ma non necessariamente autoctone. In questo modo l’esperienza diaristica viene contraddetta, il tempo della restituzione innesca un nuovo vocabolario, innestando elementi inediti. Ogni territorio (geografico) è serbatoio di forme, ma queste devono essere individuate e il riconoscimento non è immediato ma educazione alla vista. Forme archetipiche che il territorio contiene, ma che rimarrebbero nascoste se non già conosciute, osservate, rintracciate. Studiando il percorso professionale e di ricerca di Mattia Balsamini è evidente che il progetto … non è solo la restituzione di un luogo famigliare, ma la somma di una lunga partecipazione iconografica, di un vissuto altrove che trova un nuovo habitat in cui adattarsi. È per questa ragione che il diario è contraddetto: Balsamini si allontana dalla fedeltà, o presunta tale, del cronista, per vestire i panni del narratore che accoglie in sé il tempo lungo della differita. Una distanza che rimastica tutto: i colori sono spesso violenti, acidi, in questo modo le immagini si distaccano dal canone realista e diventano apparizioni. Come se Balsamini proiettasse un fascio di luce su alcuni episodi del proprio paesaggio, della propria vita. La violenza del colore evidenzia una trascrizione che non è lineare, ma irregolare, simile a quella dei sogni, dell’inconscio che si mostra a lampi intermittenti. Senza scomodare la psicoanalisi, potremmo definirlo un efficace espediente comunicativo, un modo per evidenziare cromaticamente alcuni pezzi di memoria, reale o illusoria. Fermarsi per sintetizzare e formalizzare il passato (il proprio), le forme del pensiero e la loro specifica volumetria. Balsamini sente il bisogno di effettuare una verifica, passaggio comune in fotografia, ma non delle potenzialità e dei limiti linguistici del mezzo, piuttosto del tempo che precede il progetto, degli anni vissuti dentro e fuori un territorio (d’appartenenza). E così il diario esaurisce la sua carica, muta in biografia, riportando a galla pezzi di paesaggio, di oggetti, di stanze, di tutto.

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