Testo critico a cura di Andrea Tinterri

In molti casi, nelle progettualità di Fabrizio Bellomo la fotografia rimane sullo sfondo o viene inglobata, come quando impugna una telecamera e diventa il cooprotagonista di alcuni suoi film (COMMEDIA ALL’ITALIANA, 2021, Premio Speciale della Giuria al 39° Torino Film Festival –  Italiana.doc) o si concentra su ricerche di matrice architettonica (Villaggio Cavatrulli, 2010-in corso, Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia 2018). Ma la sua estrema vivacità linguistica, anche la parola spesso rientra in questo meccanismo, non tradisce una riconoscibilità che galleggia sul sottile filo dell’ironia, cedendo spesso ad un lirismo amaro. Sarebbe scontato parlare di approccio politico, molti progetti insistono sui temi della memoria storica, del meridionalismo o sui diritti del mondo del lavoro, ma quello che prevale è un carattere che asseconda e allo stesso tempo mette in dubbio (linguisticamente ma non solo) le forme con cui si confronta. Un caso paradigmatico, pur nella sua sintesi formale, è il progetto Ksamil realizzato nel 2010.

 

Ksamil è un paese dell’Albania situato sulla costa meridionale, a poca distanza dal confine con la Grecia. L’Albania è un luogo in cui Bellomo ha lavorato spesso, probabilmente per la vicinanza geografica e culturale con la Puglia, luogo d’origine dell’artista. Una veloce ricerca online di Ksamil riporta a paesaggi vacanzieri, mari cristallini, sabbie chiare, piccoli isolotti di natura rigogliosa a pochi metri dalla riva. Una perfetta meta estiva sulle coste balcaniche. Bellomo sovverte l’immaginario geografico/turistico del luogo e propone una serie di fotografie scomposte, in cui le macerie irrompono sulla scena, case abbattute, cemento e ferro divelto. A giugno del 2010 vennero parzialmente distrutti 260 edifici abusivi, ma le ruspe lasciarono delle piccole nicchie ancora abitabili nascoste tra i detriti abbandonati al suolo. Quei luoghi ritornarono ad essere vissuti, anzi abitati, stanze dal confine alterato che ripresero la loro funzione protettiva e di rifugio. In un’immagine si vede una porta aperta, dei vasi che mantengono la loro funzione decorativa, delle sedie in plastica sotto ad un portico improvvisato e una giovane ragazza allontanarsi da casa.

Bellomo racconta una storia, inquadrature pulite, spesso centrali, una lettura chiara e sintetica di un episodio di cronaca. Solo raramente si intravede il paesaggio circostante, le abitazioni abbattute diventano dei monumenti isolati dal contesto, una metafora in cemento armato. Ma anche in questa lettura che sembra non cedere a nessun commento, è evidente quel carattere ironico, tragico, amaro e puntellato di lirismo che caratterizza l’intera produzione di Fabrizio Bellomo. Non è l’atteggiamento asettico e postmoderno dei coniugi Becher che fotografano l’architettura industriale restituendo un’eloquente enciclopedia aperta; pur nella schiettezza del taglio Bellomo innesca una narrazione, identifica episodi appartenenti e radicati nella Storia.

 

Le abitazioni di Ksamil sono frutto di un abusivismo cementificatore neo-vernacolare e così anche incubatore di resistenza, una beffa, uno scherzo; la dimostrazione ironica, non umoristica, di quella sopravvivenza abitativa probabilmente autoctona. Un solaio disteso sui gradini di una scala, sulla parete principale campeggia un tessuto, un asciugamano e un cappello con visiera appeso probabilmente a un chiodo, sotto tavolini con sedie, delle foglie di vite, forse una piccola coltivazione a segnalare una presenza stabile. L’essenziale.

 

Facebook
Twitter