Testo critico a cura di Andrea Tinterri

Quale relazione intercorre tra la tempesta Vaia dell’ottobre del 2018 che ha abbattuto 25 milioni di alberi e l’alluvione che nel 1966 colpì l’Italia Settentrionale e in particolare Firenze?

La risposta si articola su due piani complementari, da un lato un’emergenza climatica intensificatasi recentemente ma i cui prodromi risiedono nel Novecento e dall’altro la sedimentazione di memorie, quasi una sorta di archeologia della tragedia, che una catastrofe naturale costruisce e custodisce nel tempo. Caterina Erica Shanta nel progetto La Tempesta (2019) che si articola attraverso un film e una serie di immagini fotografiche, scava nelle macerie di due episodi, grattando la superficie per svelare i residui appiattiti dalla forza del vento, dell’acqua, del fango. Proprio quest’ultimo, durante l’alluvione del 1966, solidificandosi nelle cantine dell’Accademia di Belle Arti di Firenze ha bloccato l’intero microcosmo di oggetti che quel luogo conteneva. Nel 2019 l’Accademia ha ripulito le cantine dalla materia solidificata, liberando una memoria appiattita e celata per anni, giornali, gessi, fotografie, ecc. Materia naturale che si deposita a terra, come i tronchi abbattuti dalla tempesta, un campo di battaglia che occulta episodi di una quotidianità stravolta. Caterina Erica Shanta lavora spesso su archivi prestando attenzione alla sedimentazione della storia e alla fragilità dei reperti con la scrupolosa attenzione della ricercatrice, ma in questo caso uno dei due episodi in esame si è palesato a lei senza alcun filtro temporale, coinvolgendola in prima persona.

 

Dopo Tempesta Vaia, all’alba del 29 ottobre 2018, non c’era corrente elettrica, né copertura telefonica per oltre 50 km da Borca Di Cadore. Erano collassate le infrastrutture durante la notte e la popolazione si è trovata, da allora e nei giorni a seguire, completamente isolata. Nessuna parola o informazione, i giornalisti non potevano spedire sms, collegarsi ad internet, telefonare. Silenzio e odore acre di pini frantumati. Riuscii a tornare a casa a Pordenone solo verso sera, con mezzi di fortuna e il settimo senso di mia madre che l’ha condotta fino a me nel vuoto elettrico telefonico. Della Tempesta si sono avute le prime notizie sui media nazionali dopo più di una settimana. Il silenzio assordante -o vuoto mediale- che segnò quei giorni, mi colpì come un martello e non fece altro che amplificare ciò che era successo la mattina del 29 ottobre. Quel giorno, infatti, ricevetti un solo ed unico messaggio sul mio telefono, da mia nonna negli Stati Uniti: mi diceva che si era salvata con lo sfollamento, ma che aveva perso la sua casa sotto l’uragano Michael. Benché fossi cosciente del cambiamento climatico, fino a quel momento non l’avevo mai davvero compreso del tutto. Nemmeno il vento di Vaia a quasi 200 km/h in un luogo eccezionale, inedito e impossibile come la montagna, aveva reso reale quella sensazione. O la paura degli alberi che quella notte si sono schiantati sulla casa dove dormivo. É stato quel messaggio e la coscienza che a migliaia di chilometri di distanza era successo qualcosa di altrettanto eccezionale. Mai l’uragano si era spinto così tanto nell’entroterra, da divellere la casa di mia nonna. Lei non lo ricordava. L’ inquietante sensazione di compresenza, di affinità, di un evento così lontano, ma troppo vicino, mi pervase. Michael è stato il terzo più intenso uragano atlantico per pressione atmosferica mai approdato negli Stati Uniti, dietro solo all’uragano Labor Day del 1935 e all’uragano Camille del 1969.

 

Un bacino temporale delimitato da due date (1966/2019), una voragine che inghiotte tutto, come fosse un pozzo dentro cui cadono oggetti provenienti da luoghi apparentemente distanti tra loro, alluvioni e tempeste capaci di dettare un nuovo paesaggio, di riscrivere la memoria personale e collettiva.

 

Nelle prime interviste che sono circolate nella televisione italiana su Vaia c’erano volti di persone sconvolte dall’eccezionalità del fenomeno e dalla distruzione inaspettata che ha prodotto. Il riferimento nell’immaginario collettivo più vicino è stato l’alluvione che ha colpito il settentrione nel 1966, dalla Toscana fino al Friuli. Quella volta senza vento, ma con acqua e fango, in milioni di metri cubi, che hanno inondato diverse città inclusa Firenze o la piccola Borca di Cadore. Il vento del 2018 ha portato un nuovo scenario, antico e contemporaneo. Alcuni dissero che appena usciti di casa ebbero la netta sensazione di essere in un paese dov’era appena passata la guerra. Una suggestione che rivela una spaccatura, una fragilità ed una frattura nella proiezione del pensiero: attraversa il tempo e rompe il corpo narrativo, colloca con forza l’ambiente da elemento di sfondo a protagonista. Esso suscita mostri e mitologie nel racconto e trasforma in sacro ciò che non è comprensibile, come una sacralizzazione misterica della tragedia, o una nuova Tunguska.

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