Testo critico a cura di Andrea Tinterri

Il paesaggio è una delle categorie che ha segnato la storia dell’immagine, configurandosi come banco di prova per diversi linguaggi. Quella che è considerata la prima fotografia della storia, scattata nel 1826 da Nicèphore Niepce, è una veduta sui tetti di Le Gras, ripresi da una finestra. Da quel momento il paesaggio, anche in fotografia, diventerà un esercizio di poetica (ma non solo) e un confronto spesso obbligato. Allegra Martin si inserisce consapevolmente all’interno di una storia in cui la fotografia interpreta il territorio, restituendone una possibilità. La formazione in architettura presso l’università IUAV di Venezia e le lezioni di Guido Guidi hanno indirizzato l’approccio di Martin verso un paesaggio antropico, la lezione dei primi anni Ottanta di Viaggio in Italia, ha sicuramente caratterizzato buona parte della cultura visiva anche dei decenni successivi. Ma nel caso specifico di Allegra Martin, anche i numerosi lavori su commissione hanno avvicinato la sua ricerca al racconto della città, dell’architettura, immagini in cui l’uomo era una presenza costante nel paesaggio da lui costruito. L’approccio sembra deviare nella serie Arcadia: nessuna immagine riporta un titolo, i luoghi non sono identificabili (tranne in pochi casi) e la natura diventa una proiezione dell’immaginario umano. Gli unici edifici visibili sono costruzioni antiche, rovine in pietra alleate della natura, una sovrapposizione di Storie antiche. Due immagini ritraggono particolari di quadri probabilmente del Seicento, un flash sparato sulla tela dichiara la presenza della fotografa, una sorta di autoritratto. Martin in questa serie restituisce un susseguirsi di episodi visivi che sembrano non avere espliciti rimandi, ma è proprio questa imprevedibilità a comporre un ritratto della fotografa stessa. Sono appunti analogici a cui se ne possono sommare altri, un’enciclopedia potenzialmente infinita che non rimanda a nient’altro che al flusso della vita stessa. Si evidenzia una sorta di automatismo del mezzo, un inconscio tecnologico capace di registrare passaggi geografici e temporali. Ma in questo caso l’inconscio va arginato, selezionato, forse educato, senza che appaia un ossimoro. Perché ogni autoritratto è un’elaborazione del sé, immagini interiori sottoforma di tracce. E Allegra Martin non si sottrae a questo cliché, anzi dissemina le immagini di piccoli indizi, riferimenti culturali, iconografici, geografici che lo spettatore deve ricostruire, come fosse un gioco ad incastro, pezzi di sé che si allontanano dal luogo di origine per andare in pasto ad improvvisati investigatori privati (una possibile definizione di pubblico). Un paesaggio che diventa ritratto, autoritratto, un archivio di immagini non arginabile e interscambiabili, un esercizio instancabile, che accompagna quello del vivere.

È la lenta costruzione di un corpo, quello di Martin che si dispone alla bidimensionalità della carta impressionata.

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