Fotografia
Il mio rapporto con la fotografia è in perenne mutazione. Ho una formazione accademica, ma ho parallelamente affrontato studi di fotografia piuttosto ortodossi, dove la relazione con il medium e le nuove frontiere dell’immagine sono poco dibattute. Forse per questo credo che il mio rapporto con l’immagine fotografica si possa definire “genetico”. L’immaginario fotografico rappresenta cioè per me una sorta di deriva a cui approdare e da cui sempre ripartire, un imprinting al quale sono legata al di là di ogni tentativo di rottura o di emancipazione. Talvolta mi accorgo di parlare di fotografia o di suggerirne i codici anche quando non la utilizzo: persino quando realizzo un’opera tessile o un lavoro scultoreo, alla base c’è sempre una forte relazione con l’immagine, con il suo spettro percettivo o con la sua materialità/oggettualità.
Riferimenti (arte, letteratura, musica, altro)
I miei riferimenti credo siano – come per tutti – infiniti, scomposti, sotto pelle. Difficile poi discernere quelli che affiorano evidenti nel proprio lavoro da quelli che in forma più sottile si insinuano nel pensiero, o semplicemente rimangono amori pur non trovando riscontro nella propria personale ricerca. Se dovessi tracciare un mio autoritratto attraverso le opere che ho amato, sarebbe un mosaico composto da: la camera vaporizzata di Teresa Margolles, Gli imperdonabili di Cristina Campo, i concetti spaziali di Fontana, I diari di Sylvia Plath, Il Liber Novus di Jung, i colori di Rothko, Le metamorfosi di Ovidio, Gli occhi di Gutete Emerita di Alfredo Jaar, Il blue Klein, le poesie di Patti Smith, Grapefruit di Yoko Ono, Il manifesto di Barnet Newman, i disegni di Louise Bourgeois, il finale dell’Ulysse di Joyce, l’oro dei mosaici bizantini, i readymades di Duchamp, le lettere dal carcere di Antonio Gramsci, i colori sgargianti della serie Abstract di Thomas Ruff, le siluetas di Ana Mendieta, i fili di Maria Lai, le performance di Gina Pane, le poesie di Wislawa Szymborska, gli abiti di Carol Rama, il pensiero di Lacan, le monumentali opere di Kaari Upson. Riferimenti estremamente eterogenei a cui potrei aggiungere tanto altro, ma mi fermo qui! Ho anche un lato “selvatico”, folle e occulto: leggo i tarocchi, studio le erbe spontanee e sono profondamente attratta da ogni esperienza che ricollochi, anche di poco, i miei limiti.
Metodologia di ricerca
La mia ricerca si focalizza sull’intersezione fra memorie individuali e collettive: uno spazio liminale che, per me, coincide con il “reale” lacaniano: una soglia che la realtà tenta costantemente di reprimere, ma che può essere individuata osservando tra le maglie di ogni struttura sociale, in particolare nelle sue contraddizioni e anomalie. Nonostante faccia uso di differenti linguaggi – scultura, installazione, video, suono, tessile – spesso il motivo dominante è il medium fotografico, nella sua duplice natura di immagine e oggetto: attraverso processi di de-costruzione e ibridazione, costruisco il mio alfabeto e giungo ad una materia che, in modi sorprendenti, descrive la mia relazione con il mondo. Nel processo di trasmutazione dell’immagine fotografica posso giungere a nuove (e inaspettate) forme; oppure all’opposto, l’immagine torna a costituirsi nella sua originaria integrità. Ogni lavoro ha un forte impianto concettuale, ma il valore formale dell’opera rimane fondante: molti miei pezzi riportano sul retro una dicitura: “mens hebes ad verum per materialia surgit”, l’uomo accede alla verità per mezzo della materia. Queste parole – che riassumono tutto il senso della mia pratica – sono inscritte sulla porta dell’abbazia di Saint Denis. Deviare lo sguardo attivando nuove strategie percettive: mi servo delle immagini perché sono portali che permettono di accedere ad altri mondi.
Contaminazioni
Sempre considerando la fotografia nella sua duplice natura di oggetto (fisico, contingente, perituro) e immagine (disponibile, immateriale, infinita) è inevitabile per me coglierne da una parte le potenzialità materiche e scultoree, dall’altra le possibilità linguistiche, nonché le sue possibili ibridazioni con i new media, come anche con la letteratura, con i sogni, con ciò che è oltre la nostra stessa percezione delle cose. Nell’ultimo lavoro, urtumliches Bild, le immagini nascono da stratificazioni e attraversamenti, e connettono il mondo archetipico –e con esso l’ancestrale, l’origine – al linguaggio degli algoritmi. Nella materialità, la riflessione si sposta sulle qualità pittoriche e formali delle immagini prodotte dalle macchine. Per rafforzare questo sentimento ho utilizzato carte e materiali che richiamano il mondo della stampa tradizionale, come litografia e incisione, ma anche inchiostri che evidenziano la brillantezza dei toni. Ogni progetto è una nuova occasione di espansione e di superamento dei confini del fotografico, e allo stesso tempo una riflessione sui limiti del nostro spettro visivo – metafora della condizione umana, della sua transitorietà e impermanenza. Per certi versi, il mio lavoro può essere letto come atto politico: nella fotografia sono infatti inscritti tutti i caratteri della modernità. L’immagine fotografica è portatrice di un modello culturale che troppo spesso ci appare “naturale”, se non persino l’unico possibile. Fare detonare l’immagine fotografica può dunque significare anche relativizzare il nostro sguardo sulle cose: può condurre a nuovi modelli di rappresentazione, che lentamente lasciano spazio alla marginalità, e forgiano un nuovo modello di pensiero.