Intervista a Caterina Erica Shanta

Fotografia

Nella mia carriera nasco come montatrice video e cinematografica, sono abituata a vedere migliaia di immagini, tagliarle, frammentarle, riconoscere e collocarle in gradi di semantica. Spesso il tappeto sonoro è il secondo livello del film, che talvolta è una storia a sé. Da questo intreccio amoroso emerge un personale metodo di lavoro. Nello specifico la mia relazione con la fotografia nasce dal rapporto con l’archivio, ossia quella volontà di raccogliere e mettere a comparazione e relazione le immagini per generare ricerca e discorso. Queste immagini spesso sono conservate e dimenticate, tuttavia mi chiedo sempre perché siano sopravvissute a discapito di altre. La risposta spesso ha una connotazione biografica e autobiografica, mescola aspetti storici e documentali che si intersecano in modo interdisciplinare con la filosofia, media theory, l’etno-antropologia visuale, l’archeologia digitale e il cinema. Da questo intermezzo si genera la ricerca nel mio lavoro, che analizza i parametri di visibilità connessi all’infrastruttura che veicola tali immagini, per cui sono più o meno fruibili a seconda del contesto e del modo di vederle/conservarle. Le immagini circolano, si riproducono e si depositano, oppure si estinguono come un fuoco nel buio. Si riempiono di sporco, si decompongono nella terra, si polverizzano in nubi digitali.
Nella mia pratica artistica raccolgo innumerevoli storie: spesso mi è capitato di cominciare una ricerca perché ho trovato una fotografia, oppure un filmato che percepivo come “fuori contesto o fuori posto” rispetto ad una narrazione predominante. In questo modo esploro tematiche che spesso si confrontano con eventi traumatici, silenzi storici e momenti di guerra visibile che si traducono in memorie personali, spesso non traducibili in modo lineare. Cosa è la fotografia per me? Dopo queste premesse, la fotografia assume diverse caratteristiche e funzioni: in primis costituisce un oggetto di relazione – un po’ come lo era la cinepresa per Jean Rouch, in quanto oggetto condiviso, non racconta mai una singola storia ma molteplici quante sono le relazioni che l’attraversano – ed in secondo grado veicola la storia del suo custode; è inoltre il risultato significante dell’infrastruttura che l’ha generata e conservata; è perciò un documento e frutto di un contesto del quale porta i segni come cicatrici su di sé. Quando studio e faccio ricerca, cerco sempre di vedere più immagini possibili, al fine di comprendere ciò che caratterizza un immaginario visibile in un determinato luogo/bacino culturale: di questi immaginari cerco sempre di capire perché una certa immagine sia più pregnante o pervasiva di altre. Mi interessa poi individuare quelle immagini che stanno ai margini, che sono al limite del collasso e della sparizione. Al limite della visibilità. Trovo che da questa visione periferica sia possibile avere uno sguardo più ampio sullo stato delle cose e permetta di porre delle basi anche di una critica sociale e politica delle immagini. È per questo che faccio cinema e faccio fotografia.

Riferimenti (arte, letteratura, musica, altro)

Spesso mi trovo a dover rivedere i miei riferimenti in quanto si scontrano con una certa idea che sto maturando in quel momento. Posso comunque citare alcun* autor* che mi hanno influenzata nella mia pratica di ricerca e in certe estetiche ricorrenti nei miei lavori. Guardo molto cinema documentario, adoro osservare le fotografie delle persone – album di famiglia, fotografie dal cellulare, etc. Alcuni nomi che mi vengono alla mente: Harun Farocki – le opere cinematografiche e i suoi scritti. La filosofia e l’estetica di Hito Steyerl Tutto il cinema di Chris Marker, in particolare i film saggi. Il modo in cui Agnes Varda affronta i temi legati al personale Il documentari sempre attuali di Werner Herzog Il cinema post-coloniale di John Akomfrah Le installazioni di Kader Attia Il cinema di Clemens von Wedemeyer Le ricerche, l’uso dei documenti e delle immagini a scopo simulativo,gli output visivi, formali e comunicativi di Forensis Architecture Tutti i testi di Jorge Luis Borges Il libro che scrisse Andrej Tarkovskij – Scolpire il tempo Carlo Ginzburg, è stato radicale nell’individuare una metodologia più umana, passionale per scrivere la Storia. Gli Animal Studies. Il Calibano e la Strega di Silvia Federici.

Metodologia di ricerca

Quale metodo? Seguo delle fasi di ricerca, solitamente tre.

Ricerca: come scrivevo a proposito della fotografia, cerco sempre di avere un panorama d’immagini più ampio possibile, in modo da poter cogliere delle ricorrenze. Questo mi permette di individuare ciò che più di altro si trova al limite del visibile. In questa fase inoltre cerco anche di studiare il contesto storico in cui sono avvenute certe vicende, il momento e le logiche produttive in cui tali immagini/oggetti sono stati creati. In accordo con quanto scritto dallo storico Carlo Ginzburg, questa ambivalenza del documento e del racconto si colloca tra microstoria – che ha a che fare con il personale e la dimensione più intima ed emotiva – e la Storia che riguarda un gruppo più ampio di persone.

Sviluppo: Ciò che era una ipotesi sino alla fase preliminare, con il sopralluogo ed il rapporto diretto con le persone, può diventare la strada da seguire per raccontare una storia. Cerco sempre di individuare un nucleo di persone con cui interagire e tramite loro, allargare la rete di relazioni sociali, in modo tale da raccogliere una narrazione trasversale che dal personale si faccia collettivo. Questa è la fase più delicata, poiché in questo momento si stabiliscono i legami che daranno alla luce il progetto ancora sulla carta. In questa fase cerco inoltre di vedere e duplicare in digitale anche gli album di famiglia / quelle immagini che custodite-dimenticate, possono divenire una buona base di partenza per la fase finale del lavoro.

Produzione: Qui devo fare una digressione. Per quanto riguarda le immagini in movimento, tra fotografia o frame non c’è una vera e propria distinzione chiara – a livello di presentazione formale finale ovviamente c’è, ma nella fase produttiva in cui realizzo i materiali in digitale, non vado lontano dal concepire le immagini e gli oggetti come documenti o documentazione archivistica, anche se sono filmati. L’elemento che varia davvero è lo spettatore ed il suo rapporto con il tempo e la storia raccontata tramite l’immagine. Quindi è il rapporto con il tempo il punto cardine dell’intero processo. Se scelgo di fare una fotografia piuttosto che un filmato è perché voglio fare una riflessione sul tempo di fruizione in rapporto al tempo che sottende all’opera. Nel caso de La Tempesta, fanno parte del progetto fotografico tutti quegli oggetti che sono rimasti a terra a decomporsi o trasmutare nel tempo, con il suolo concepito come archivio a cielo aperto. Ci sono oggetti provenienti dall’alluvione del 1966 (i calchi in gesso ottocenteschi alluvionati o le lastre fotografiche, o le fotografie ai sali s’argento ossidate rivenute sotto le cantine) e ci sono oggetti provenienti dal terreno lasciato da Tempesta Vaia – 2018, muffe e legna trasfigurata (il paesaggio lunare di montagna e i tarli del bostrico).
In ogni caso la produzione del lavoro è il momento in cui nel cinema si dice “ciak si gira!”. Dopo aver organizzato tutta la macchina produttiva, responsabilizzato le persone che collaboreranno con me, aver visionato il materiale fotografico, si va a realizzare le immagini. “Sul set” con le persone passo moltissimo tempo. Per fare un’intervista di solito ci metto 90 minuti, in modo da poter cogliere una panoramica di emozioni, dall’imbarazzo pre-impostato iniziale, alla fase intermedia in cui ci si dimentica della cinepresa, alla fase finale in cui si è esaurito ogni argomento e si parla di altro. Perdo molto tempo “in chiacchiere” e lo trovo funzionale al mio lavoro e progetti, in quando sono le relazione che intercorrono attorno alle immagini ciò che mi interessa.

Contaminazioni

Archivi digitali, archeologia digitale. In questo universo fatto d’immagini, le contaminazioni e le ibridazioni avvengono attraverso vari stati dell’immagine stessa, dalle fotografie cartacee, al digitale, ai cloud, ai big data usati a scopo predittivo e ricostruttivo. A livello comportamentale fotografare è divenuto un semplice gesto parte di una ritualità personale che tuttavia si fa collettiva. Questo assunto traspare molto bene dal mio lavoro Il Cielo Stellato, dove attraverso una open call ho raccolto migliaia di fotografie di un stesso oggetto destinato alla distruzione. Quelle fotografie nel loro insieme possono ricostruire digitalmente, attraverso la tecnica della fotogrammetria, ciò che non è più visibile. La fotogrammetria di questo tipo è usata in campo archeologico, ma è una tecnica di origine in primis militare, quando Oskar Messter – durante la prima guerra mondiale – mise un fucile un stereoscopico sotto la pancia di un aereo per fare i rilevamenti tridimensionali del territorio nemico. Con la stessa tecnica, ma in modo molto più preciso e sofisticato, con i droni è possibile e ricostruire tridimensionalmente l’intera morfologia che ci circonda, incluse città e boschi. Durante gli studi su Palmyra questa intuizione è emersa con tutta la sua forza, in quanto la comunità archeologica internazionale ha raccolto milioni di fotografie scattate anche dai turisti, per mappare e ricostruire l’intero sito archeologico. Nel 2016 una parte è stata ristampata in 3D.

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