Intervista ad Alessandro Calabrese

Fotografia

La mia ricerca fotografica affonda le sue radici nello studio dell’architettura e nella storia della fotografia di paesaggio. Da un utilizzo della fotocamera esclusivamente analogica, con un incedere lento e meditativo, per raccontare i dettagli della città in linea con i maestri che mi hanno formato, il mio interesse si è direzionato verso l’archivio e la fotografia vernacolare. Progressivamente nei miei progetti si è palesata con sempre più forza una riflessione che aveva come soggetto la fotografia stessa, scevra da ogni intenzione narrativa e figurativa. Così ho ampliato e differenziato ulteriormente l’utilizzo del medium includendo nel processo produttivo l’uso di internet attraverso, per esempio, l’impiego degli algoritmi che manovrano i motori di ricerca del web, oppure la sperimentazione della fotografia off camera grazie all’uso dello scanner, infine, più recentemente, dei tentativi di stampa di immagini sui lati “sbagliati” delle carte fotografiche.

Riferimenti (arte, letteratura, musica, altro)

Come detto, le prime influenze provengono dall’architettura, soprattutto da un punto di vista processuale, metodologico e di stratificazione del progetto, in particolar modo nelle figure di docenti che ho avuto modo di frequentare come Renato Rizzi e Paolo Ceccon. Successivamente la prima personalità fotografica che mi ha influenzato è stata quella di Guido Guidi, riferimento al quale puntare prima e dal quale allontanarmi il più possibile poi. Altre figure significative sono state, in Italia, Francesco Jodice e, all’estero, Wolfgang Tillmans e Thomas Ruff. La riflessione visiva sul rapporto tra figurativo e astratto la devo invece all’opera pittorica di Francis Bacon e a quella multidisciplinare di Carmelo Bene, mediata, in entrambi i casi, dalla filosofia di Gilles Deleuze. Infine, da un punto di vista contenutistico, e in parte anche di linguaggio, devo molto a David Foster Wallace e a tutta la corrente postmoderna, sia essa filosofica che letteraria.

Metodologia di ricerca

Qui devo scindere un po’ la mia ricerca in due fasi.

La prima si è contraddistinta per un’analisi, come detto poco sopra, sul linguaggio fotografico, ponevo molta attenzione alla sua storia e al suo sviluppo contemporaneo. Cercavo riferimenti per innescare un nuovo discorso, per aggiungere un tassello, possibilmente innovativo, al grande mosaico del fotografico. A questo universo iconografico ho sempre cercato di affiancare approfondimenti teorici e saggistici che fungessero da struttura concettuale portante. A posteriori posso dire che questi ultimi hanno sempre lavorato in maniera laterale, quasi inconscia, aiutandomi a partorire idee improvvise concretizzabili rapidamente, cosa che si addice molto alla mia pigrizia pratica.

La seconda fase, quella in cui mi trovo ora, si è resa indipendente dalla ricerca sul linguaggio (anche se il progetto che presento qui ragiona ancora sul metafotografico), non mi interessa più indagare il medium ma utilizzarlo e contaminarlo con altri ed affrontare tematiche che prescindano quelle del linguaggio visivo.

Contaminazioni

Negli ultimi anni sto includendo nei miei progetti sia l’uso della parola, che del video, ma sto anche lentamente avvicinandomi alla scultura. Questo comporta nuovi riferimenti, nuovi approfondimenti, sopratutto legati alla pratica dell’arte contemporanea in generale, che prima avevo sempre bypassato in favore di studi teorici da declinare in termini fotografici. Però ogni contaminazione che sto sperimentando sembra avere come origine e fine una riflessione, ancora una volta, sul visivo a fungere da cardine centrale di ogni progetto, indipendentemente dal tema che sto affrontando. Insomma, mi sto arrendendo all’idea che il fotografico, anche se nell’accezione più ampia possibile, è qualcosa dal quale non riuscirò mai a scappare ed è forse il caso di iniziare ad accettarlo, serenamente.

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